Perché odio i ritratti
di Gianluca Caputo
Posso non essere me stesso? Ed essendo me stesso, posso agire altrimenti da quel che sono? Posso essere me stesso e un altro? E da quando sono al mondo, c’è stato un solo istante in cui ciò non sia stato vero?
(D. Diderot, Jacques le fataliste et son maître, trad. it. di L. Binni)
Pippo psicanalista
Nel 1979 uscì sul settimanale «Topolino» (numero 1342), edito da Mondadori, una storia di Jerry Siegel (disegnata da Giorgio Bordini) che è a mio avviso una delle più ricche di spunti sul versante cognitivo/psicologico della produzione disneyana: Pippo psicanalista.
In questa breve storia, Pippo, dopo aver seguito un corso per corrispondenza per diventare psicanalista si accorge ben presto di assumere la stessa malattia del suo paziente. Questa cosa lo rende mutevole, imprevedibile e spesso irascibile (contrariamente al solito carattere conosciuto dagli amici). Pippo si comporta come facciamo più o meno tutti quando ci confrontiamo con gli altri: ci mascheriamo per essere come crediamo di essere visti. Pippo, in questa storia simbolica, fa anche di più: diventa proprio gli altri, ma appunto perché è un simbolo, il simbolo della purezza e della ingenuità, che rappresenta al meglio il nostro essere uomini camaleontici. Pippo non è necessariamente felice di "essere gli altri", anche se non sembra di poterne fare a meno. Infatti viene invitato dal suo amico Topolino a tornare di nuovo "se stesso", rendendo così felici tutti. Quale se stesso, però, deve essere? Ovviamente quello che Topolino e tutti gli amici riconoscono! «Da quando Pippo fa lo psicanalista non è più lo stesso!», si lamenta qualcuno. Topolino invita Pippo a rimettere la maschera che ha sempre avuto, quella che lo rende accettato dagli altri. Tuttavia, nella storia di Siegel, è interessante notare come lo stesso Topolino debba utilizzare una maschera per far riprendere a Pippo la sua!
Camaleonti
Di maschere abbiamo bisogno, per non restare soli con la nostra (quella che mettiamo a noi stessi).
L'idea che abbiamo di noi stessi dipende in modo determinante dalla considerazione che gli altri hanno di noi. Tutti siamo un po’ come Zelig, il noto personaggio diretto e interpretato da Woody Allen, o Pippo psicanalista: camaleonti, ovvero diventare esattamente come le persone che ci stanno a fianco, cambiare il proprio comportamento, il modo di parlare e persino l’aspetto.
La nostra vuole essere una lucida riflessione sull'ipocrisia della società moderna e sul pericolo di interferire con le libertà individuali, sulle difficoltà di integrazione che ha il singolo appartenente a una minoranza. Zelig rappresenta le nostre insicurezze, la nostra volontà di assomigliare a tutti e il bisogno di piacere agli altri per piacere a noi stessi.
Ma chi sono io?
Prendiamo un attributo di una individuo "camaleontico": la versatilità, ovvero quella capacità di adattarsi alle situazioni e alle persone con cui si troverà a interagire. Può questa persona essere invidiata per la sua capacità di adattamento ma allo stesso tempo sarà ritenuta da qualcuno "difficile" da capire e verrà temuta (come tutto ciò che non si comprende): non riusciremmo infatti a cogliere della persona in questione, la cosiddetta "vera natura", ne parleremmo come di un teatrante, una "maschera" appunto.
Ragioniamo sul concetto di "vera natura": la verità è un valore che fa parte del linguaggio, di quello che dico, e non dell'oggetto di cui parlo. Vero o falso è che dica che una certa persona è "x" invece di "y", e la verità della proposizione si trova nella frase che affermo su di lei, non certo nella persona reale che descrivo, perché la persona, qualsiasi cosa dica di essa, resta sempre la stessa.
A proposito di uomini che cambiano maschera a seconda delle situazioni, il collegamento spontaneo è con la maschera latina, quella che gli attori indossavano negli anfiteatri romani, che si chiama, guarda caso, "persona". Le persone sono dunque quei teatranti che cambiavano volto o espressione a seconda della scena e le persone/maschere non sono altro che attori che recitano nel dramma della vita (come ci ricorda il buon Shakespeare).
Mi pongo allora delle domande:
• Possiamo non indossare maschere?
• Possiamo indossare una maschera che non ci appartiene?
• Se indossiamo una certa maschera non è forse perché siamo capaci di indossarla e quindi sentiamo di riuscire, in un dato momento, a esprimerci con essa?
• E se ci esprimiamo in un determinato modo e con una certa maschera, chi lo decide se non sempre noi?
• E non stiamo dunque ancora utilizzando la nostra volontà?
• E infine: non siamo quindi ancora noi quando decidiamo quale maschera indossare?
Se non possiamo mai essere diversi da quello che siamo, da dove viene dunque l’errore di chiederci cosa siamo "veramente"? Come detto prima, crediamo sia solo un problema di linguaggio e di un errore vecchio come l’uomo legato ad esso: l’illusione, tutta umana appunto, di poter controllare tutto con il proprio linguaggio. Se nel nostro modo di parlare, ragionare, interpretare il mondo esiste la distinzione tra verità e falsità, questa allora deve ripetersi anche nella realtà che descriviamo, perché altrimenti ci sfuggirebbe; ma la realtà, per fortuna, ci sfugge e proprio perché è quella che è.
Il problema che resta allora non è più "quale è la vera natura di una persona", ma piuttosto "come potremo parlarne". E allora se vogliamo descrivere come una persona veramente è, con le parole, come faremo? Evitando i ritratti, ci dice il buon Jacques di Diderot, e raccontando piuttosto quello che fa, rivelando il suo copione sul palcoscenico della vita, perché è nei suoi gesti che si esprime la sua volontà, anche nella scelta della maschera che indossa: e la volontà è l’unica "vera natura", quella che si può mostrare e di cui non si può parlare.
ILPADRONE: «E perché odi i ritratti'?».
JACQUES: «Perché sono così poco somiglianti che se per caso avviene d'incontrare gli originali, nemmeno si riconoscono. Raccontatemi i fatti, rendetemi fedelmente i discorsi, e io subito saprò con che uomo ho a che fare. Una parola, un gesto mi hanno talvolta fatto capire di più delle chiacchiere di un'intera città»
(D. Diderot, Jacques le fataliste et son maître, trad. it. di L. Binni)